venerdì 19 ottobre 2012

Pirati



Tornavamo a casa dopo l'ultimo giorno di scuola. Il sole ci scaldava i grembiuli neri e le cartelle, dall'erba folta a ogni passo saltava, volava o strisciava via una cavalletta, una farfalla, una libellula o una biscia. Le rondini ci sfrecciavano accanto a un palmo da terra lanciando piccoli gridi festosi.
Non potevamo chiedere di più dalla vita e invece a casa ci aspettava il regalo più bello: un'enorme catasta di legna era spuntata per incanto a pochi passi dai cascinali, in una sola mattina, come quei vulcani che – l'avevo letto da qualche parte – affiorano dal mare all'improvviso e in poche ore s'innalzano sull'acqua in isole di lava fumante.
La legna doveva essere stata scaricata semplicemente ribaltando i rimorchi, perché non c'era nulla di ordinato, di razionale nel cumulo. Era un caos di grossi tronchi mezzo sepolti dalla ramaglia, ceppi incastrati sotto falangi di pali appuntiti, nicchie scure come tane di ragno.
Prendemmo subito possesso della montagna di legna arrampicandoci fino alla sommità e piantando in vetta un bastone con i fiocchi delle nostre divise di scuola annodati come bandiera.

Poche settimane dopo ogni versante della catasta ospitava uno scenario diverso. A nord c'erano le palizzate di Forte Apache, con la torretta di guardia e i camminamenti; dalla parte opposta iniziavano i passaggi angusti per la Grande Grotta e da qui si poteva strisciare direttamente nella sala di controllo dell'astronave o infilare il boccaporto e spuntare sul ponte della nave pirata, una grande tre alberi con tanto di ruota di barroccio come timone.
I giochi si spostavano da una all'altra delle scenografie a seconda della calura, della compagnia e dell'ispirazione, ma il veliero era sempre tra i preferiti. A furia di arrembaggi e naufragi l'equipaggio dei corsari si era definito: ognuno interpretava un pirata diverso e aveva a che fare con personaggi del tutto immaginari che, nati per caso, avevano sviluppato una propria personalità grazie a qualche dote particolare. C'era il vecchietto ubriacone, il francese codardo, il novellino...
E c'era Basetta, un tipo grande e grosso, ingenuo e fedele nell'amicizia quanto feroce in battaglia; di solito lo facevo entrare in scena quando il sole picchiava forte e l'equipaggio preferiva la frescura della stiva al rombo dei cannoni. Allora Basetta ci faceva ridere per le sue domande assurde e per la facilità con cui cadeva nei tranelli dell'ammiraglio spagnolo. Ma aveva una forza straordinaria, coraggio da vendere e anche fortuna; riusciva sempre a cavarsela.

Un giorno che l'abulia della ciurma mi irritava o che per qualche motivo mi giravano le scatole, decisi che di Basetta ne avevo abbastanza. Così, alla fine di una delle sue imprese più memorabili, lo feci saltare per aria con tutto il galeone spagnolo che aveva abbordato.
Un silenzio terribile scese sul ponte della nave.
I compagni di tante battaglie, di solito feroci e sprezzanti, si guardavano increduli o si gingillavano con le sciabole. Una lacrima percorse la guancia del nostromo. Un marinaio cominciò a singhiozzare piano, poi un altro. La ciurma più spietata dei Caraibi sprofondò nei peggiori piagnistei e non ci fu verso di scuoterla né con le promesse di vendetta né con i richiami alla dignità.

Non ricordo quale stregoneria voodo o artificio della trama usai per resuscitare Basetta , ma dopo qualche minuto sulle tavole del veliero risuonarono di nuovo i suoi passi pesanti e partirono i festeggiamenti per il compagno ritrovato.

Quel giorno cominciai a scoprire il potere bello e terribile della letteratura.

2 commenti:

  1. "Quel giorno cominciai a scoprire il potere bello e terribile della letteratura."

    Mi inchino al grande Bruno.
    Bellissimo.
    Pirati!

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