venerdì 10 gennaio 2014

Racconto del mese: novembre



Regali a Ferragosto

di "MasMas" Marco Viggi

 

Esco dal mare. “Swosh!”: l’acqua sulla pelle evapora in una nuvoletta bianca. Faccio due passi e la sabbia comincia a temprarmi la pianta dei piedi. “Ahi!” grido al sole. Corro alla passerella. Il cemento è al punto di fusione del titanio. Zompo fino all’ombrellone e salto nella sua ombra.
In mezzo a questa umanità varia, che in fondo è il bello dello stare in vacanza, il mio piccolo angolo privato: i vestiti appesi, le ciabatte, il telo. E la borsa con i regali. Tiro fuori i pacchi incartati: piccoli come un pugno, ma sono tanti. Mi guardo intorno: la gente non mi bada, nessuno che mi faccia gli auguri. Pazienza. Oggi è il mio giorno speciale: tanti auguri a me e mi siedo sul lettino.

La nonna dell’ombrellone a destra è seduta, con la rivista in mano, come quando arrivo la mattina, come quando vado via la sera.
Nemmeno lei è incuriosita dai pacchi. Ne allungo uno verso di lei e tento: “Scusi Wanda, ha visto questo?”
“Eh giovinotto?”
“Dico, questo pacchetto qui, che tengo in mano.”
“Certo giovinotto, ha ragione.” e sorride. Come tutte le mattine, come tutte le sere. È sempre lì. Forse le si è incollato il culo alla tela del lettino, col caldo. Beh, non sarò io a controllare.
Mi allungo verso di lei sfidando il calore da Vesuvio e lo deposito sotto il suo lettino.
Ripete: “Certo giovinotto.”
Quest’inverno voglio venire a fare un salto per vedere se c’è ancora. Le illustrerò la teoria della relatività, per vedere se risponde: “Certo giovinotto.” Se avremo un altro inverno, io e lei.

A sinistra confino con Irene, detta da me Jesseca, con il suo bikini che copre il meno possibile del corpo ambrato steso sul lettino come una pelle di caimano. Ha gli occhi chiusi, come sempre quando arrivo, come sempre quando vado. Anche lei accessorio fisso della spiaggia.
Accanto al lettino il libro. Non gliel’ho mai visto leggere, e spero non lo faccia mai. Manco fosse le barzellette di Totti. Manco fosse 50 sfumature. Manco fosse gli amori adolescenziali di Moccia. No, molto peggio... Non riesco nemmeno a pensarlo il titolo.
Tento di chiedere anche a lei? No. Quando le parlo mi guarda con gli occhi che dicono: “Potresti essere mio padre.” In effetti anche tuo nonno. Anche il tuo australopiteco.
Mi allungo piano anche da lei e deposito un pacchetto sotto il lettino. “Uh, uh!” anche a te Jesseca.

Eccolo. Adesso chiedo a lui. Si avvicina Telefunken: nome d’arte per cuccare le tedesche, all’anagrafe Lorenzo Belli, il bagnino. Si avvicina con il passo a metà tra Fonzie e Bay Watch, almeno dice lui. A me ricorda più Bambi sul ghiaccio. Però ci crede anche Irene, a quanto pare. Lui arriva al di lei lettino e sorride: Jesseca si scioglie come gelato nel forno. Uno sguardo complice e tirano fuori il cellulare per scambiarsi qualche messaggio pieno di ke e nn. Poi passa da me. Vorrei porre a lui i miei xké ma lascio stare.
Mi allungo sulla sabbia che scotta come quella su Venere d’estate e lascio cadere un pacchetto nel retino che tiene in spalla.

“Cosafaicosafaicosafai?”
Giannino, il figlio di... qualcuno di sicuro, di chi non si sa. Non sono mai riuscito a chiederglielo, perché...
“Deipacchettibellisonotuoipossoprenderne...”
“No, non puoi pr...”
“Daidaidaifammeneaprireunoduequattrodiecièiltuocompleannobelloilmioinvece...”
“No, non te li faccio aprire e...”
“Daidaidaisolounomacosac’èdentrodaifammivederedimmelo...”
“Guarda,” prendo quello che mi ero portato nel caso qualcuno avesse tentato di curiosare e lo apro. Dentro c’è la biografia di Tolstoj. “Sono libri, tutti. Libri. Come a scuola. Ma visto che ci tieni, prendine uno. Ecco, questo qui.”
La parola magica libro sortisce l’effetto: “Ah... Grazie, ciao.” Lo afferra con due dita tenendolo lontano come fosse cacca di scarafaggio puzzone e fugge via.

Un rumore dietro: “Ciao capo. Comprare braccialetto cuoricino. Sì?” Mi giro e mi appare un nero con una maglietta dei Miami Dolphins, diciotto cappelli da Indiana Jones in testa, tre scope in spalla, teli da mare sotto braccio e un pannello di cartone con infilati duemila braccialetti rosa a cuoricini, occhiali da sole, orologi, collane, pastiglie per i freni, l’uomo del tonno Insuperabile, una pistola laser e la mela di Biancaneve.
Mi salta il cuore nel petto e trattengo un grido: l’ubervucumprà.
“No grazie, non ho soldi.” Mento.
Lui stringe gli occhi e si vede che pensa: “bersaglio non pagante”. Per un secondo lo sguardo gli passa da allegro ad arcigno poi un gridolino di Irene gli stampa il sorriso sulla faccia e se ne va da lei. Ma gli africani hanno più denti di noi? Boh, intanto mentre si gira gli deposito un pacco dentro una delle mille borse, semiaperta.

Ta tattatta tattatta tattatta ta. La corazzata Potemkin. La suoneria del mio cellulare che ho messo quando chiama mammamogliesorella: per me sono tutte uguali, tutte la stessa persona.
Mi tocca di rispondere: “Ciao.” Non c’è bisogno di dire altro. Poggio il telefono. Mentre una voce ronza dall’apparecchio, mi guardo intorno. Sole, mare, solitudine, una vacanza per recuperare dallo stress di una vita. Non potrei desiderare di più.
Mah. Che faccio adesso di bello? Prendo un altro pacco. Questo ha la carta d’argento, con tante righine blu e verdi che si incrociano, in diagonale. E un fiocco fatto con nastro rosso, con tanti riccioli cadenti. Al mio amico son venuti bene. Con quel che mi son costati. Ma non importa, tanto dopo oggi non sarà più un problema, il denaro. E questo a chi lo do?
Ops, dimenticavo il telefono. Lo riprendo e attendo un silenzio. A lungo. Tocca a me: “Certo. Come dici tu. Adesso metto giù che sono a secco con la batteria, scusa. Baci.”
Tasto rosso.

“Ué, cara, finalmente al mare!”
Sulla passerella c’è il cummenda. Aspira alla briatorietà: capello brizzolato, occhiale, pelle cadente ma lampadata al limite del pollo arrosto. Slip bianco che delinea ben bene ciò con cui ragiona.
È con la moglie di questo agosto. La tiene tipo baguette sotto braccio, tanto è secca come un cardo, per il botulino. Pesa trenta chili causa anoressia d’ordinanza. Le tette di gomma sono così gonfie che se non la tenesse lui volerebbe via.
Son fermi sulla passerella, a finire la sigaretta. Lui aspira l’ultima boccata poi la afferra con due dita e la lancia. Il mozzicone finisce proprio tra i miei piedi.
Sbuffo come un toro di fronte a un sipario di un teatro. Mi lancio alla carica a testa bassa e incorno il cummenda al basso ventre.
Nella mia fantasia.
Nella realtà loro mi passano davanti mentre io respiro forte e sbollisco. Mi sento un Ghandi. Mi sento un Buddha. Mi sento un codardo.
Però, mi allungo e aggancio un pacchetto all’alluce della mummia, ops... moglie.

Ritorna Telefunken, ha in mano il retino, sta pulendo la spiaggia. Miracolo! In genere lo fa quando Urano è in trigono con il suo culo. Ma deve anche passare la cometa di Halley. Arriva da me e ignora la siga del cummenda, a imperitura memoria della mia coglionaggine.
“Ciao...” tento, ma non mi sente. Lo sguardo da San Bernardo è puntato sulla bionda col bikini più piccolo del mondo che si bagna i piedi in mare. Sorrido. So già l’effetto che farà il suo “Me ghiama-re Coccolino, io ti amo.”
Chissà dov’è finito il pacchetto che gli avevo messo nel retino. Me ne preoccupo? Ma no, va. Oggi mi sento fortunato, e generoso: gliene deposito un altro.

“Coccobbellococco!”
Eccolo qua il venditore più tipico della riviera romagnola. Manco fossimo in Congo. Manco lui fosse congolese. Non sapevo che Napoli fosse luogo di coltivazione della palma da cocco: o’ cocc’e Posillipo D.O.C.G.
Il tizio col carretto e il secchio dell’acqua mi guarda con gli occhi stretti. Deve aver notato il mio sguardo che dice: “Se siamo in Romagna perché non mi vendi un bicchiere di sangiovese? Una piada? Anche i tortelli caldi andrebbero meglio.”
Ripenso al mio coraggio col cummenda e abbasso lo sguardo su un pacchetto. Scavo un buco, prima col piede, poi con la mano. Tanti auguri, questo lo lascio qui.

“Coccobbellococco!”
Il tizio non molla. Continua a girarmi intorno e a fissarmi.
Alzo lo sguardo e sorrido. Lui sorride meno, per usare un eufemismo.
Gonfia il petto e mi punta: “Capo, che avite? Vulesse nu cocc o andate a cerca’ nu uaie?”
Ok, l’ho fatto incazzare. È colpa mia, sempre a criticare. Dai, mi farò perdonare: “Sì buon uomo, grazie.”
“So tre euro.” A faccia ro c...occo! Poggia il carretto, il secchio con l’acqua e ci toccia i piedi.
Sorrido: “Credevo che servisse per bagnare il cocco.”
“Certo.” Dice lui tocciando il mio pezzo di cocco nell’acqua.
Sorrido meno. Si struscia il naso col risucchio e passa il cocco in quella mano per porgermelo. Sorride di più. Io ancora meno.
Guardo oltre la sua spalla: “È la finanza che ha la divisa grigia vero?”
Si gira. Io butto il pacchetto nel secchio.
“Porc’a maronn!” Grida, e in un attimo non v’è più.
Tre euro risparmiati. Torno a sdraiarmi.

Sento un rumore di plastica che sfrega. Poi puzzo di gomma vulcanizzata, visto il sole. Sulla passerella mi sgomma davanti un canotto a forma d’uomo. No aspetta, è un uomo gonfio come un canotto.
Accosta davanti a me. Sta sudando ormoni della crescita come un camion col radiatore bucato. Sorride, ha i muscoloni anche nella mascella. Lo immagino a sollevare mini bilancieri con le labbra.
Punta Irene: sento l’odore degli estrogeni che lei sprizza mentre lui la guarda.
Lui scosta il ciuffo biondo dalla fronte. Lei si morde il labbro. Lui tende un bicipite. Lei ovula.
Un rituale di accoppiamento in diretta, manco Quark. Forse, tra poco lui comincerà a danzare agitando i gomiti e saltellando con gli occhi fuori dalle orbite: “Hu aha! Guru guru.”
Tutta quella carne esercita una lieve attrazione gravitazionale, la sento.
Provo: salto come un popcorn in padella sulla sabbia, gli appoggio un pacchetto alla schiena e rimbalzo indietro. Il pacchetto rimane lì, attaccato. Misteri della gravitazione universale.

Ho sete.
Mi alzo, prendo un pacchetto e vado al bar gestito dalla Carmen. Una ragazòna ruscpante figlia di quescta terra di Romagna, con tutti i suoi chili di troppo al posto giusto: laterali, retro basso e fronte alto.
“Mo buona sera, mo cosa la vuole il nostro bel clientino qui!”
“Buona sera, mi da un’aranciata?”
“Mo come no! Ecco qua. Mo vuole la canutza?”
“No grazie. Quant’è?”
“Mo non la vorà mica andare via subito.” Beh, io veramente pensavo di sì. “Mo lo vuole asagiare un goccio di lambruschino? È tutto genuino qui in Romagna.” e ammicca al suo davanzale.
“Un po’ di formagino, questo qua mo vien dale nosctre coline, roba buona! Se no, mo prenda almeno una sardina fritta, ecco, ne ho un bidone qui. Oppure le cuocio una salciccia? Due capeletti? Lascagne?”
“Signora! Mi dica quant’è.”
“Mo va bene. Scono otto euro.”
Tutto eccezionale qui in Romagna. Pago. Non mi fa lo scontrino e mollo un pacchetto dentro il cestino davanti al banco.

“Hubert wurstel helmutt beker!” ok il mio tedesco non esiste, ma più o meno è quel che sento. Mi giro. Arrivano tre spilungoni bianchi chiazzati di rosso, capelli biondi a spazzola, bragoni da bagno adatti a Giuliano Ferrara.
Hanno in mano lattine di birra e uno ha sulle spalle la fabbrica della Tuborg. No, è solo una borsa piena di lattine, ma a loro piacerebbe molto.
Ridono già ubriachi: “Wolkswagen wilander merkel!” mentre si lanciano una palla da calcio, che sfreccia tra le teste e gli ombrelloni.
Gli altri villeggianti prendono contromisure: chi erge barricate di lettini, chi scava trincee con paletta e secchiello, i più anziani si organizzano in corpi militari ed ergono una linea gotica intitolata a Badoglio.
Io mi barrico dietro il lettino con un secchiello in testa.
I tre si avvicinano. Li appello: “Ehi, karthofen!”
“Bitte?” si fermano.
Gli porgo un pacco: “Wunderbar wermacht!”
Quelli mi guardano, poi uno prende il pacco e sorride: “Krazi!”
Attendo siano a fare vittime sul bagnasciuga e smilitarizzo.

“France’!” sento dietro.
Bene, è ora di andare. Il sole è ancora alto, sono solo le cinque ma è ora di andare: arrivano i Santoro.
“France’!” Mamma Maria Rosaria è la base ritmica, si ripete costante come un metronomo.
Poi c’è papà Gaetano, e i figli Francesco, Maria Assunta, Maria Addolorata, Maria Annunziata e Saverio. E la zia Mari’, che temo si chiami Maria Maria, con i figli Karim e Jason.
Sotto un unico ombrellone, con due lettini, per stare comodi perché in vacanza non badano a spese.
“France’!” e cominciano gli altri strumenti.
Te-te-tette-tette! Attacca il cellulare della zia.
Tingu-tingu: il gioco sul tablet di Mariaqualcosa.
“Tevogliooobbeeeneee!” La radiolina di papà.
Tunzi-tunzi-tunzi: il telefono di Mariaqualcunaltra suona la hit dell’estate in loop continuo.
La zia risponde. “Sì mari’! Nun me di’! No mari’! Nun so sta... Sì, no, nun lo so! Sta così: sì mari’.” Anche musicale no? No.
Con l’aggiunta di assoli di grida di qualcuno dei più piccoli, di litigi, di rumore di partite a racchettoni o calcio, sbattere, tirare e mollare, il concerto raggiunge l’apice, al volume dei Metallica:
“France’!” Te-te-tette-tette
“France’!” Te-te-tette-tette Tingu-tingu
“France’!” Te-te-tettetette Tingu-tingu “Tevogliooobbeeeneee!”
“France’!” Tingu-tingu “Tevogliooobbeeeneee!” Tunzi-tunzi-tunzi “Sì mari’! Nun me di’!”
“France’!” Tingu-tingu Tunzi-tunzi-tunzi “No mari’! Nun so sta...”
“France’!” Tingu-tingu “Tevogliooobbeeeneee!” Tunzi-tunzi-tunzi “Sì, no, nun lo so! Sta così: sì Mari’.”
“France’!” Tingu-tingu “Tevogliooobbeeeneee!”
“France’!” Tingu-tingu Tunzi-tunzi-tunzi
“France’!” “Tevogliooobbeeeneee!”
Bene, posso resistere ancora pochi minuti prima che i timpani implodano verso l’interno spappolandomi la materia grigia. Per una famiglia grande, ci vuole un regalo grande. Prendo una manciata di pacchi e salto sulla passerella. Raggiungo il vortice di confusione e rumore sotto il loro ombrellone e getto nell’occhio del ciclone i regali, che si perdono tra le spire del tornado. Torno sul lettino con i piedi ustionati ma felice.
Raccolgo le mie cose mentre i Santoro si spargono ovunque, facendo fuggire alcuni, contagiando altri: i bambini fanno amicizia e distribuiscono i miei regali per la spiaggia.

Me ne vado. Faccio la passerella, esco dallo stabilimento, procedo sul lungomare verso il mio albergo. Saluto gente: sono di buon umore, perché finalmente è giunto il mio giorno. Non mi preoccupo mentre mi guardano tirare fuori il telecomando, mentre mi giro verso il mare e schiaccio il pulsante.
Adesso si voltano tutti. Una raffica ravvicinata di esplosioni coprono la sinfonia dei Santoro, le parole di Telefunken, il coccobbello, la Wanda e la Jesseca. Lampi di fuoco colorano di rosso il cielo sopra la spiaggia. Un vento trasporta l’odore di bruciato sopra le nostre teste e oltre, mentre colonne di fumo cominciano a salire.
E poi grida, fuoco, panico, fiamme, gente che chiama o corre alla spiaggia. Io vado dall’altra parte, sorrido, rilassato. Questa è la mia giornata, tanti auguri a me.


3 commenti:

  1. Divertente, piacevolissimo da leggere e nello stesso tempo lasci qualcosa in testa.

    Giuseppe Novellino

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  2. Mi è piaciuto molto. La traccia, diciamo alla "fight club" concede all'autore l'opportunità per una spassosa carrellata satirica su una spiaggia della romagna, ma che in realtà potrebbe essere ovunque. Un luogo dell'anima, oserei dire.

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  3. Fight club non me lo aveva detto nessuno... (che onore)

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