La strega
di "wyjkz31" Rossana Zago
Catene
e buio sono tutto il mondo. Non sento più il lezzo nauseante che mi
ha aggredita all’arrivo; ho perso il conto dei giorni trascorsi qui
dentro e sono diventata quell’odore disgustoso di sangue, paura e
sudore.
Amo
le catene che mi impediscono di toccare quello che resta del mio
corpo.
La
morte. La sento vicina, a volte, e poi, invece, mi risveglio ancora
qui. Non può essere peggiore, l’inferno.
Era
autunno, tempo di raccogliere funghi e fare scorta di legna per
l’inverno. Avrei avuto bisogno dell’aiuto di un uomo, ma un uomo
mi aveva avuta, bambina, e avevo promesso a me stessa che nessuno
sarebbe più entrato nel mio letto.
Non
era una gran vita, la mia, e c’erano cose che mi mancavano; non una
casa in muratura o cibo a sufficienza tutti i giorni, o meglio, sì,
ma essere libera compensava ogni disagio. In realtà mi mancava una
cosa sola: l’amore. E quel giorno d’autunno lo cercavo tra funghi
e rami secchi, dove sapevo di non correre il pericolo di trovarlo.
«Ciao»
la voce proveniva dalla caverna grande. Non avevo mai creduto che ci
abitassero gli spiriti, ma sobbalzai ugualmente.
Un
uomo mi stava fissando; arretrai d’istinto.
«Non
avere paura» venne verso di me e indietreggiai, consapevolmente .
«Non
voglio farti del male, non scappare.»
Sorrideva,
una chiostra di denti candidi faceva capolino fra labbra
rosee come quelle di un bambino, le fossette sulle guance gli davano
un’aria inoffensiva.
Mi
fermai e impugnai
con
forza il ramo che avevo appena raccolto. «Parli strano, da dove
vieni?» chiesi.
«Hai
ragione, sono uno straniero.»
Strinsi
con più forza
il
ramo, pronta a scappare fra gli alberi se solo avesse fatto un altro
passo avanti. Lui mi fissava sorridendo.
«Perché
lo fai?» chiesi.
«Faccio
cosa?»
«Mi
guardi e non dici niente. Si può sapere cosa vuoi da me?»
«Che
ne pensi se ti aiuto a raccogliere la legna? Vanno bene i rami come
questo?»
«Tu
non hai mai raccolto la legna, vero?»
«Vero»
ammise. «Però sono forte abbastanza per aiutarti a trasportarla.
Che ne pensi?»
Mi
seguì, carico di legna, per il bosco. Scivolava, cadeva, perdeva
rami durante il cammino, sudava e ansimava. Era buffo, faceva
tenerezza ma
non mi fidavo di lui.
«Ho
finito.» Mi avvicinai per prendere la fascina di legna, ma l’uomo
sorrise e scosse la testa. «Ti accompagno fino a casa, credo che mi
spetti una ricompensa per l’aiuto che ti ho dato.»
Il
cuore accelerò i battiti e un velo di sudore
mi imperlò la schiena nonostante l’aria frizzante della sera. Non
risposi. Scappai. Veloce più che potevo, fra i cespugli spinosi del
sottobosco, saltando radici e schivando i rami bassi degli abeti,
attenta a non condurlo nei pressi del mio rifugio. Sentivo i passi
che mi seguivano, impacciati, sì, ma veloci abbastanza da non
lasciarsi distanziare. Ansimavo per lo sforzo e la paura, le gambe
doloranti volevano solo fermarsi, ma proseguivo. E lui dietro.
Nessuna parola, nessun richiamo. La sua presenza alle spalle,
rumorosa come un cinghiale infuriato e altrettanto terrorizzante.
Inciampai,
ruzzolai lungo una bassa scarpata e mi fermai a pochi metri da un
dirupo.
L’uomo
non rallentò e non esitò. Si lasciò cadere e rotolare lungo il
pendio, con fidando
nella fortuna. Paralizzata dalla paura, vidi il suo corpo avvicinarsi
e, senza più controllo, superarmi.
«Aiuto!
Aiutami!» urlava l’uomo, le mani aggrappate a una roccia e il
corpo dondolante nel vuoto, senza la forza per issarsi in salvo.
Lo
guardai. Lo guardai cadere. Lo guardai scomparire nella nebbia
d’acqua che risaliva dalle cascate sottostanti.
Nel
buio di questa cella lo vedo ancora precipitare e chiamare il mio
nome. Come lo sapeva? La domanda mi tormentava assieme al rimorso.
Ero un’assassina. Avevo commesso un peccato mortale che avrebbe
dannato la mia anima. Quella notte sognai il fuoco e le fiamme
dell’inferno.
Non
lo sapevo ancora, ma il Signore, o il Demonio, mi aveva offerto una
visione di ciò che mi aspettava; un patimento in espiazione del mio
peccato o il prologo dei tormenti per la mia anima dannata?
Sono
sola, in questa cella, disperatamente .
Una strega che non vuole confessare, meritevole delle peggiori
torture, dicono, e
a volte ci credo. Credo di avere danzato con Satana sotto la luna
piena e di aver portato in grembo l’anticristo.
Quando
le ferite smettono di sanguinare e il dolore pulsa sordo, costante e
quasi sopportabile, allora mi aggrappo ai ricordi, per non smarrire
la ragione, per provare a resistere.
Potevo
evitare di avvicinarmi alla caverna grande, ma non comandavo alla
mente con la stessa facilità con cui comandavo al corpo. Vedevo
sempre davanti agli occhi il suo viso sorridente e sentivo nelle
orecchie l’urlo che aveva fatto cadendo. Quando
me lo ritrovai davanti, lo scambiai per un fantasma.
Scappai
e lui dietro, in una replica della fuga di pochi giorni prima, fra
sentieri fangosi, sotto una pioggia insistente e gelata. Scivolai,
cadendo in avanti tra le foglie marce, lui mi raggiunse e, fra tutte
le cose che poteva fare, fece la più incredibile. Si mise a ridere.
Una risata aperta, che si allargò nell’aria, sovrastando i fruscii
del bosco.
«Dai
che ti aiuto; sempre che tu non abbia paura che ti trascini con me
nell’aldilà.»
Non
avevo intenzione di rischiare e mi rimisi in piedi da sola. «Sei
vivo?»
Si
toccò il petto con le mani e si diede due schiaffetti in faccia.
«Direi proprio di sì. Ho avuto fortuna, l’altro giorno.»
«Quando
sei caduto… hai urlato il mio nome. Come facevi a saperlo?»
«Ho
sentito parlare di te, giù in paese.»
Non
chiesi altro. Immaginavo cosa potevano dire di me i bigotti, che
ritenevano salvifici malattie e dolori e peccatore chi tentava di
alleviarli, salvo poi acquistare di nascosto le mie pomate e le mie
tisane.
Dopo
quel giorno lo incontrai ancora, e ancora, e ancora.
Arrivano.
Sento i passi e il tintinnio delle chiavi. Sono convinta che facciano
più rumore del necessario solo per spaventarmi. L’attesa, le
domande, la fila di strumenti di tortura che mi aspettano sono
altrettanto atroci del dolore fisico. Prego il Dio in cui nonostante
tutto credo. Lo prego di aiutarmi. Davvero non so quale aiuto
desidero; riuscire a resistere ancora, morire, smarrire del tutto la
ragione. Non so cosa voglio. Mi rimetto alla Sua volontà, ma non
trovo conforto.
È
finita.
Domani
brucerà il mio corpo e la
mia anima, nuda, raggiungerà l’inferno per bruciare per
l’eternità. Così hanno detto.
Non
ho ammesso i miei peccati e brucerò viva. Non mi sarà concessa una
morte pietosa prima che venga appiccato il fuoco. È quello che
volevo, ma ora ho paura che sia solo un sogno, un’illusione o,
peggio, un tranello del maligno.
Raggiungere
il luogo in cui mi rifugio per sfuggire al presente è difficile,
quando anche respirare mi procura dolore.
Sentivo
che in Robin c’era qualcosa di anomalo. Non solo i denti, bianchi e
perfetti come non ne avevo mai visti, ma tutto il suo aspetto faceva
pensare a una persona molto giovane, invece era un vecchio.
Trentaquattro anni. Quando mi disse l’età risi. «Mi prendi in
giro. Ho la metà dei tuoi anni e sembriamo fratelli, non è
possibile.»
«Da
dove vengo io la gente resta giovane a lungo.»
Vedo
ancora i suoi occhi, lucenti, che mi fissano e io che mi specchio
nelle sue pupille grandi e capisco, senza possibilità di errore, che
mi ama.
Il
mio primo, unico amore. Il primo e unico uomo che ho baciato.
Il
desiderio di sfiorare, anche solo per un momento, le sue labbra è
tanto intenso da farmi scambiare il refolo gelido che si insinua
nella cella per l’alito caldo di Robin. Socchiudo le labbra
screpolate e attendo, invano.
Robin
era uno straniero, per il modo di fare, di pensare, per i discorsi
che faceva. Ci incontravamo nella caverna grande, la sua casa. Una
casa piena di oggetti che non avevo mai visto, magici e spaventosi.
Mai ho pensato che potessero essere emanazioni del maligno.
C’era
in lui tanto amore per me che avevo l’impressione di amarlo solo
perché lui mi amava. Nessun demonio poteva essere capace di amare
tanto intensamente .
Entrai
nel suo letto. Superai il ribrezzo, la paura, i ricordi e lo amai.
Nascosi il ventre gonfio fin quando fu possibile e in seguito uscii
di casa solo di nascosto. Giunto il momento, andai da Robin.
Non
provai dolore. Per i giudici la prova che avevo dato alla luce il
figlio del demonio.
Non
lo so, se sia vero. So che i formicolii al ventre erano piacevoli e,
dopo una breve pressione, mio figlio scivolò fuori, nel tepore della
caverna, senza un lamento.
L’ho
attaccato al seno una sola volta, prima che ci trovassero.
«Non
posso portarti con me, non adesso. Ti amo. Fidati, ti prego» le
ultime parole di Robin. Si allontanò e scomparve con il nostro
bambino, come se non fossero mai esistiti.
Il
dolore cui sono sfuggita mi è stato restituito, perché una figlia
di Eva non può sottrarsi alla condanna divina. Hanno ragione, lo so.
Vorrei
fare il bagno. Desidero immergermi nell’acqua tiepida e lavare dal
mio corpo il ricordo della prigione. È un’abitudine che mi ha
insegnato Robin ed è male, so anche questo.
Non
mi salverà dal fuoco, come ha promesso, non mi porterà in un mondo
migliore, non guarirà le mie ferite e non vivremo felici per il
resto della nostra vita: l’approssimarsi della morte mi ha tolto
l’ultima illusione. Domani implorerò il perdono per i miei
peccati.
Ho
sognato il mio bambino. Muoveva i primi passi appoggiandosi al muro;
volevo chiamarlo, ma non potevo perché non conoscevo il suo nome.
Per
colpa mia è nato dannato senza speranza di redenzione.
«Strega»
il frate usa il crocefisso come uno scudo. «Pentiti!» La voce
risuona potente nel silenzio della piazza. Centinaia di persone mi
fissano, gli occhi pesti non mi consentono di vederle, ma sento i
loro sguardi pungere sulla pelle.
Vogliono
lo spettacolo completo e non li deluderò.
Scuoto
la testa, andrò all’inferno se è l’unico modo per rivedere mio
figlio. In silenzio chiedo perdono a Dio per averlo rifiutato.
Tossisco
per il fumo e sento il crepitio della legna in fiamme. Sono dolore,
oltre ogni immaginazione, e odore di carne bruciata.
Fra
le urla che non riconosco come mie, sento la voce di Robin che mi
chiama.
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