Oltre
di Alen Grana
C’è
che a essere piccoli, nel nostro paesino di provincia, bisognava
sapersi arrangiare con quello che si aveva.
No,
non per le cose di tutti i giorni.
Eravamo
sì accerchiati dalle colline ma non ci facevamo mancare nulla.
Giornalaio,
fornaio, bottega... tutto, insomma.
Ma a
misura d’adulto; neppure un gioco, e ci mancava davvero.
Non
gli amici, per fortuna, i più cari: Giovanni, Felice e Libero.
E per
divertirci insieme bastava la fantasia.
Chi da
piccolo non ha mai giocato a nascondino?
Un
classico che non passerà di moda nemmeno oggi, nell’era dei
computer.
Giocare
nella piazza del paese ci permetteva di usare i nascondigli più
impensabili, più difficili e più pericolosi.
La casa
di Vanni era già disabitata quando mio nonno era piccolo. Ormai
nessuno aveva più memoria di chi fosse questo Vanni. Rimaneva solo
un nome e la leggenda che si era creata attorno all’abitazione.
Per
quelli più grandi di noi, entrare nella casa mezza sfasciata era
considerata una prova d’iniziazione.
All’epoca
non ci pensai nemmeno troppo: entrai passando quel portone appoggiato
contro il muro e mi diressi al piano di sopra. Dentro era tutto
grigio. Polvere e pezzi di mobili rotti. La scala in legno
scricchiolava al mio passaggio.
Non
pensai a nulla di ciò, il mio scopo era solamente quello di
nascondermi e lì, di sicuro, nessuno mi avrebbe trovato.
Oltrepassai
una stanza più luminosa delle altre: una lama di sole filtrava da
una crepa del vetro sporco. Proprio quella luce, come un faro che
attira le navi, mi rapì.
Arrivai
davanti alla finestra, cosparsa di ragnatele.
Non
toccai niente, per paura che da fuori Giovanni, impegnato nella
conta, potesse scorgermi.
La
finestra, senza scuri esterni, dava proprio sulla via della piazza.
Mi spostai da un lato all’altro per vedere dove fosse il mio amico
ma non lo vidi.
Fu
un’altra la cosa che vidi.
Me
stesso.
Mi si
freddano le mani.
Ancora
oggi, dopo tutti questi anni.
Quando
ripenso a quella prima volta, un brivido mi scende lungo la schiena
portandosi via tutto il sangue dalle dita.
Ero
proprio io.
E quella
che portavo a mano era la mia bicicletta rossa fiammante con alcuni
nastri sul manubrio.
Mi passai
le mani sugli occhi. Arrivai pure a pizzicarmi la guancia.
Eppure il
me stesso lì in basso non scompariva.
Rimasi
così, ipnotizzato da quella visione, senza la forza di aprire la
finestra.
Pochi
secondi e alla mia destra, anzi, alla destra del me stesso oltre al
vetro, arrivò Dafne, una mia compagna di scuola.
Mi si
avvicinò, bicicletta al fianco come me e, dopo esserci scambiati
qualche parola, ci baciammo.
Le mie
mani andarono subito alla bocca.
Lui, cioè
io, aveva baciato Dafne. Quanto avevo aspettato quel momento, lei mi
piaceva davvero.
Ma baciò
lui, e poco mi importava che fossi in realtà io.
Mi
ridestai da quel sogno ad occhi aperti non appena i due uscirono
dalla mia visuale.
I giorni
si susseguirono. Le settimane anche.
Quello
che avevo visto mi tornava in mente di continuo.
Mi
fermavo a guardare la grande casa di Vanni e la paura di oltrepassare
quel portone mi frenava.
Un
pomeriggio passavo lì davanti con la bicicletta al fianco ripensando
ancora una volta a quell’immagine quando venni raggiunto proprio da
Dafne.
“Come
un fulmine a ciel sereno.”
Quel
fulmine fu il bacio che Dafne mi diede proprio lì, in quella via,
sotto la finestra misteriosa.
E capii
che era tutto vero: avevo visto il futuro.
Possibile?
Possibile
davvero che in quella casa vi fosse una finestra che mostrava il
futuro?
Chissà
chi era davvero Vanni.
Me lo
chiesi spesso mentre mi appostavo dietro a quel vetro.
Me lo
chiesi quando vidi l’incendio che distrusse il negozio di Natalina,
vicino alla Chiesa, un mese prima che succedesse davvero.
A nulla
valsero le mie parole d’avvertimento.
A nulla
se non a farmi passare per matto.
E, sì,
continuai a chiedermelo anche dopo diversi anni, quando vidi Dafne
passeggiare per il corso principale con una carrozzina rossa
fiammante, come la mia vecchia bicicletta.
Sorrisi,
solo pochi giorni prima, infatti, mi aveva confidato di essere
incinta.
Non le
dissi mai niente. Tenni tutto per me.
Era il
mio segreto: la mia finestra segreta verso il futuro.
Eppure,
proprio ora che gli anni si sono sommati gli uni agli altri e le mie
ossa sono diventate fragili, mi accorgo che anticipare i tempi toglie
tutto il divertimento.
Guardo la
macchina del becchino procedere a passo d’uomo dalla Chiesa verso
il cimitero.
Dietro,
allineati in fila, passano Dafne, nostra figlia Melissa ormai
cresciuta, i mie nipoti e Felice, l’unico amico ancora in vita.
Sorrido e
appoggio per la prima volta una mano sul vetro.
Chissà
perché non me l’ero mai immaginato così freddo.