Regali a Ferragosto
di "MasMas" Marco Viggi
Esco dal mare. “Swosh!”:
l’acqua sulla pelle evapora in una nuvoletta bianca. Faccio due
passi e la sabbia comincia a temprarmi la pianta dei piedi. “Ahi!”
grido al sole. Corro alla passerella. Il cemento è al punto di
fusione del titanio. Zompo fino all’ombrellone e salto nella sua
ombra.
In mezzo a questa umanità
varia, che in fondo è il bello dello stare in vacanza, il mio
piccolo angolo privato: i vestiti appesi, le ciabatte, il telo. E la
borsa con i regali. Tiro fuori i pacchi incartati: piccoli come un
pugno, ma sono tanti. Mi guardo intorno: la gente non mi bada,
nessuno che mi faccia gli auguri. Pazienza. Oggi è il mio giorno
speciale: tanti auguri a me e mi siedo sul lettino.
La nonna dell’ombrellone a
destra è seduta, con la rivista in mano, come quando arrivo la
mattina, come quando vado via la sera.
Nemmeno lei è incuriosita dai
pacchi. Ne allungo uno verso di lei e tento: “Scusi Wanda, ha visto
questo?”
“Eh giovinotto?”
“Dico, questo pacchetto qui,
che tengo in mano.”
“Certo giovinotto, ha
ragione.” e sorride. Come tutte le mattine, come tutte le sere. È
sempre lì. Forse le si è incollato il culo alla tela del lettino,
col caldo. Beh, non sarò io a controllare.
Mi allungo verso di lei sfidando
il calore da Vesuvio e lo deposito sotto il suo lettino.
Ripete: “Certo giovinotto.”
Quest’inverno voglio venire a
fare un salto per vedere se c’è ancora. Le illustrerò la teoria
della relatività, per vedere se risponde: “Certo giovinotto.” Se
avremo un altro inverno, io e lei.
A sinistra confino con Irene,
detta da me Jesseca, con il suo bikini che copre il meno possibile
del corpo ambrato steso sul lettino come una pelle di caimano. Ha gli
occhi chiusi, come sempre quando arrivo, come sempre quando vado.
Anche lei accessorio fisso della spiaggia.
Accanto al lettino il libro. Non
gliel’ho mai visto leggere, e spero non lo faccia mai. Manco fosse
le barzellette di Totti. Manco fosse 50 sfumature. Manco fosse gli
amori adolescenziali di Moccia. No, molto peggio... Non riesco
nemmeno a pensarlo il titolo.
Tento di chiedere anche a lei?
No. Quando le parlo mi guarda con gli occhi che dicono: “Potresti
essere mio padre.” In effetti anche tuo nonno. Anche il tuo
australopiteco.
Mi allungo piano anche da lei e
deposito un pacchetto sotto il lettino. “Uh, uh!” anche a te
Jesseca.
Eccolo. Adesso chiedo a lui. Si
avvicina Telefunken: nome d’arte per cuccare le tedesche,
all’anagrafe Lorenzo Belli, il bagnino. Si avvicina con il passo a
metà tra Fonzie e Bay Watch, almeno dice lui. A me ricorda più
Bambi sul ghiaccio. Però ci crede anche Irene, a quanto pare. Lui
arriva al di lei lettino e sorride: Jesseca si scioglie come gelato
nel forno. Uno sguardo complice e tirano fuori il cellulare per
scambiarsi qualche messaggio pieno di ke e nn. Poi passa da me.
Vorrei porre a lui i miei xké ma lascio stare.
Mi allungo sulla sabbia che
scotta come quella su Venere d’estate e lascio cadere un pacchetto
nel retino che tiene in spalla.
“Cosafaicosafaicosafai?”
Giannino, il figlio di...
qualcuno di sicuro, di chi non si sa. Non sono mai riuscito a
chiederglielo, perché...
“Deipacchettibellisonotuoipossoprenderne...”
“No, non puoi pr...”
“Daidaidaifammeneaprireunoduequattrodiecièiltuocompleannobelloilmioinvece...”
“No, non te li faccio aprire
e...”
“Daidaidaisolounomacosac’èdentrodaifammivederedimmelo...”
“Guarda,” prendo quello che
mi ero portato nel caso qualcuno avesse tentato di curiosare e lo
apro. Dentro c’è la biografia di Tolstoj. “Sono libri, tutti.
Libri. Come a scuola. Ma visto che ci tieni, prendine uno. Ecco,
questo qui.”
La parola magica libro
sortisce l’effetto: “Ah... Grazie, ciao.” Lo afferra con due
dita tenendolo lontano come fosse cacca di scarafaggio puzzone e
fugge via.
Un rumore dietro: “Ciao capo.
Comprare braccialetto cuoricino. Sì?” Mi giro e mi appare un nero
con una maglietta dei Miami Dolphins, diciotto cappelli da Indiana
Jones in testa, tre scope in spalla, teli da mare sotto braccio e un
pannello di cartone con infilati duemila braccialetti rosa a
cuoricini, occhiali da sole, orologi, collane, pastiglie per i freni,
l’uomo del tonno Insuperabile, una pistola laser e la mela di
Biancaneve.
Mi salta il cuore nel petto e
trattengo un grido: l’ubervucumprà.
“No grazie, non ho soldi.”
Mento.
Lui stringe gli occhi e si vede
che pensa: “bersaglio non pagante”. Per un secondo lo sguardo gli
passa da allegro ad arcigno poi un gridolino di Irene gli stampa il
sorriso sulla faccia e se ne va da lei. Ma gli africani hanno più
denti di noi? Boh, intanto mentre si gira gli deposito un pacco
dentro una delle mille borse, semiaperta.
Ta tattatta tattatta tattatta
ta. La corazzata Potemkin. La suoneria del mio cellulare che ho
messo quando chiama mammamogliesorella: per me sono tutte uguali,
tutte la stessa persona.
Mi tocca di rispondere: “Ciao.”
Non c’è bisogno di dire altro. Poggio il telefono. Mentre una voce
ronza dall’apparecchio, mi guardo intorno. Sole, mare, solitudine,
una vacanza per recuperare dallo stress di una vita. Non potrei
desiderare di più.
Mah. Che faccio adesso di bello?
Prendo un altro pacco. Questo ha la carta d’argento, con tante
righine blu e verdi che si incrociano, in diagonale. E un fiocco
fatto con nastro rosso, con tanti riccioli cadenti. Al mio amico son
venuti bene. Con quel che mi son costati. Ma non importa, tanto dopo
oggi non sarà più un problema, il denaro. E questo a chi lo do?
Ops, dimenticavo il telefono. Lo
riprendo e attendo un silenzio. A lungo. Tocca a me: “Certo. Come
dici tu. Adesso metto giù che sono a secco con la batteria, scusa.
Baci.”
Tasto rosso.
“Ué, cara, finalmente al
mare!”
Sulla passerella c’è il
cummenda. Aspira alla briatorietà: capello brizzolato, occhiale,
pelle cadente ma lampadata al limite del pollo arrosto. Slip bianco
che delinea ben bene ciò con cui ragiona.
È con la moglie di questo
agosto. La tiene tipo baguette sotto braccio, tanto è secca come un
cardo, per il botulino. Pesa trenta chili causa anoressia
d’ordinanza. Le tette di gomma sono così gonfie che se non la
tenesse lui volerebbe via.
Son fermi sulla passerella, a
finire la sigaretta. Lui aspira l’ultima boccata poi la afferra con
due dita e la lancia. Il mozzicone finisce proprio tra i miei piedi.
Sbuffo come un toro di fronte a
un sipario di un teatro. Mi lancio alla carica a testa bassa e
incorno il cummenda al basso ventre.
Nella mia fantasia.
Nella realtà loro mi passano
davanti mentre io respiro forte e sbollisco. Mi sento un Ghandi. Mi
sento un Buddha. Mi sento un codardo.
Però, mi allungo e aggancio un
pacchetto all’alluce della mummia, ops... moglie.
Ritorna Telefunken, ha in mano
il retino, sta pulendo la spiaggia. Miracolo! In genere lo fa quando
Urano è in trigono con il suo culo. Ma deve anche passare la cometa
di Halley. Arriva da me e ignora la siga del cummenda, a imperitura
memoria della mia coglionaggine.
“Ciao...” tento, ma non mi
sente. Lo sguardo da San Bernardo è puntato sulla bionda col bikini
più piccolo del mondo che si bagna i piedi in mare. Sorrido. So già
l’effetto che farà il suo “Me ghiama-re Coccolino, io ti amo.”
Chissà dov’è finito il
pacchetto che gli avevo messo nel retino. Me ne preoccupo? Ma no, va.
Oggi mi sento fortunato, e generoso: gliene deposito un altro.
“Coccobbellococco!”
Eccolo qua il venditore più
tipico della riviera romagnola. Manco fossimo in Congo. Manco lui
fosse congolese. Non sapevo che Napoli fosse luogo di coltivazione
della palma da cocco: o’ cocc’e Posillipo D.O.C.G.
Il tizio col carretto e il
secchio dell’acqua mi guarda con gli occhi stretti. Deve aver
notato il mio sguardo che dice: “Se siamo in Romagna perché non mi
vendi un bicchiere di sangiovese? Una piada? Anche i tortelli caldi
andrebbero meglio.”
Ripenso al mio coraggio col
cummenda e abbasso lo sguardo su un pacchetto. Scavo un buco, prima
col piede, poi con la mano. Tanti auguri, questo lo lascio qui.
“Coccobbellococco!”
Il tizio non molla. Continua a
girarmi intorno e a fissarmi.
Alzo lo sguardo e sorrido. Lui
sorride meno, per usare un eufemismo.
Gonfia il petto e mi punta:
“Capo, che avite? Vulesse nu cocc o andate a cerca’ nu uaie?”
Ok, l’ho fatto incazzare. È
colpa mia, sempre a criticare. Dai, mi farò perdonare: “Sì buon
uomo, grazie.”
“So tre euro.” A faccia ro
c...occo! Poggia il carretto, il secchio con l’acqua e ci toccia i
piedi.
Sorrido: “Credevo che servisse
per bagnare il cocco.”
“Certo.” Dice lui tocciando
il mio pezzo di cocco nell’acqua.
Sorrido meno. Si struscia il
naso col risucchio e passa il cocco in quella mano per porgermelo.
Sorride di più. Io ancora meno.
Guardo oltre la sua spalla: “È
la finanza che ha la divisa grigia vero?”
Si gira. Io butto il pacchetto
nel secchio.
“Porc’a maronn!” Grida, e
in un attimo non v’è più.
Tre euro risparmiati. Torno a
sdraiarmi.
Sento un rumore di plastica che
sfrega. Poi puzzo di gomma vulcanizzata, visto il sole. Sulla
passerella mi sgomma davanti un canotto a forma d’uomo. No aspetta,
è un uomo gonfio come un canotto.
Accosta davanti a me. Sta
sudando ormoni della crescita come un camion col radiatore bucato.
Sorride, ha i muscoloni anche nella mascella. Lo immagino a sollevare
mini bilancieri con le labbra.
Punta Irene: sento l’odore
degli estrogeni che lei sprizza mentre lui la guarda.
Lui scosta il ciuffo biondo
dalla fronte. Lei si morde il labbro. Lui tende un bicipite. Lei
ovula.
Un rituale di accoppiamento in
diretta, manco Quark. Forse, tra poco lui comincerà a danzare
agitando i gomiti e saltellando con gli occhi fuori dalle orbite: “Hu
aha! Guru guru.”
Tutta quella carne esercita una
lieve attrazione gravitazionale, la sento.
Provo: salto come un popcorn in
padella sulla sabbia, gli appoggio un pacchetto alla schiena e
rimbalzo indietro. Il pacchetto rimane lì, attaccato. Misteri della
gravitazione universale.
Ho sete.
Mi alzo, prendo un pacchetto e
vado al bar gestito dalla Carmen. Una ragazòna ruscpante figlia di
quescta terra di Romagna, con tutti i suoi chili di troppo al posto
giusto: laterali, retro basso e fronte alto.
“Mo buona sera, mo cosa la
vuole il nostro bel clientino qui!”
“Buona sera, mi da
un’aranciata?”
“Mo come no! Ecco qua. Mo
vuole la canutza?”
“No grazie. Quant’è?”
“Mo non la vorà mica andare
via subito.” Beh, io veramente pensavo di sì. “Mo lo vuole
asagiare un goccio di lambruschino? È tutto genuino qui in Romagna.”
e ammicca al suo davanzale.
“Un po’ di formagino, questo
qua mo vien dale nosctre coline, roba buona! Se no, mo prenda almeno
una sardina fritta, ecco, ne ho un bidone qui. Oppure le cuocio una
salciccia? Due capeletti? Lascagne?”
“Signora! Mi dica quant’è.”
“Mo va bene. Scono otto euro.”
Tutto eccezionale qui in
Romagna. Pago. Non mi fa lo scontrino e mollo un pacchetto dentro il
cestino davanti al banco.
“Hubert wurstel helmutt
beker!” ok il mio tedesco non esiste, ma più o meno è quel che
sento. Mi giro. Arrivano tre spilungoni bianchi chiazzati di rosso,
capelli biondi a spazzola, bragoni da bagno adatti a Giuliano
Ferrara.
Hanno in mano lattine di birra e
uno ha sulle spalle la fabbrica della Tuborg. No, è solo una borsa
piena di lattine, ma a loro piacerebbe molto.
Ridono già ubriachi:
“Wolkswagen wilander merkel!” mentre si lanciano una palla da
calcio, che sfreccia tra le teste e gli ombrelloni.
Gli altri villeggianti prendono
contromisure: chi erge barricate di lettini, chi scava trincee con
paletta e secchiello, i più anziani si organizzano in corpi militari
ed ergono una linea gotica intitolata a Badoglio.
Io mi barrico dietro il lettino
con un secchiello in testa.
I tre si avvicinano. Li appello:
“Ehi, karthofen!”
“Bitte?” si fermano.
Gli porgo un pacco: “Wunderbar
wermacht!”
Quelli mi guardano, poi uno
prende il pacco e sorride: “Krazi!”
Attendo siano a fare vittime sul
bagnasciuga e smilitarizzo.
“France’!” sento dietro.
Bene, è ora di andare. Il sole
è ancora alto, sono solo le cinque ma è ora di andare: arrivano i
Santoro.
“France’!” Mamma Maria
Rosaria è la base ritmica, si ripete costante come un metronomo.
Poi c’è papà Gaetano, e i
figli Francesco, Maria Assunta, Maria Addolorata, Maria Annunziata e
Saverio. E la zia Mari’, che temo si chiami Maria Maria, con i
figli Karim e Jason.
Sotto un unico ombrellone, con
due lettini, per stare comodi perché in vacanza non badano a spese.
“France’!” e cominciano
gli altri strumenti.
Te-te-tette-tette! Attacca
il cellulare della zia.
Tingu-tingu: il gioco sul
tablet di Mariaqualcosa.
“Tevogliooobbeeeneee!” La
radiolina di papà.
Tunzi-tunzi-tunzi: il
telefono di Mariaqualcunaltra suona la hit dell’estate in loop
continuo.
La zia risponde. “Sì mari’!
Nun me di’! No mari’! Nun so sta... Sì, no, nun lo so! Sta così:
sì mari’.” Anche musicale no? No.
Con l’aggiunta di assoli di
grida di qualcuno dei più piccoli, di litigi, di rumore di partite a
racchettoni o calcio, sbattere, tirare e mollare, il concerto
raggiunge l’apice, al volume dei Metallica:
“France’!”
Te-te-tette-tette
“France’!”
Te-te-tette-tette Tingu-tingu
“France’!”
Te-te-tettetette Tingu-tingu “Tevogliooobbeeeneee!”
“France’!” Tingu-tingu
“Tevogliooobbeeeneee!” Tunzi-tunzi-tunzi “Sì mari’!
Nun me di’!”
“France’!” Tingu-tingu
Tunzi-tunzi-tunzi “No mari’! Nun so sta...”
“France’!” Tingu-tingu
“Tevogliooobbeeeneee!” Tunzi-tunzi-tunzi “Sì, no, nun
lo so! Sta così: sì Mari’.”
“France’!” Tingu-tingu
“Tevogliooobbeeeneee!”
“France’!” Tingu-tingu
Tunzi-tunzi-tunzi
“France’!”
“Tevogliooobbeeeneee!”
Bene, posso resistere ancora
pochi minuti prima che i timpani implodano verso l’interno
spappolandomi la materia grigia. Per una famiglia grande, ci vuole un
regalo grande. Prendo una manciata di pacchi e salto sulla
passerella. Raggiungo il vortice di confusione e rumore sotto il loro
ombrellone e getto nell’occhio del ciclone i regali, che si perdono
tra le spire del tornado. Torno sul lettino con i piedi ustionati ma
felice.
Raccolgo le mie cose mentre i
Santoro si spargono ovunque, facendo fuggire alcuni, contagiando
altri: i bambini fanno amicizia e distribuiscono i miei regali per la
spiaggia.
Me ne vado. Faccio la
passerella, esco dallo stabilimento, procedo sul lungomare verso il
mio albergo. Saluto gente: sono di buon umore, perché finalmente è
giunto il mio giorno. Non mi preoccupo mentre mi guardano tirare
fuori il telecomando, mentre mi giro verso il mare e schiaccio il
pulsante.
Adesso si voltano tutti. Una
raffica ravvicinata di esplosioni coprono la sinfonia dei Santoro, le
parole di Telefunken, il coccobbello, la Wanda e la Jesseca. Lampi di
fuoco colorano di rosso il cielo sopra la spiaggia. Un vento
trasporta l’odore di bruciato sopra le nostre teste e oltre, mentre
colonne di fumo cominciano a salire.
E poi grida, fuoco, panico,
fiamme, gente che chiama o corre alla spiaggia. Io vado dall’altra
parte, sorrido, rilassato. Questa è la mia giornata, tanti auguri a
me.