Marcia funebre
di Giuseppe Novellino
Sul foglietto pieghevole era
riportato il programma.
Nel primo tempo avrebbero
eseguito la Serenata per archi op. 22 di Anton Dvorak e la Marcia Funebre
opera postuma di Pier Germano Alodisio; nel secondo tempo la sinfonia K 201 di
Mozart e il concerto per pianoforte e orchestra n°4 op.110 di Johann Nepomuk
Hummel. Malinconia evocatrice, delicata leggerezza, chiaroscuri romantici e
visioni d’oltretomba: il tutto affidato all’orchestra sinfonica “Gli Armonici”,
diretta da Klaus Hoppinskj, e al pianista Goffredo Terzigni.
– Stimolante – disse Laura,
accomodandosi sulla poltroncina di velluto rosso. – E poi dicono che il giovane
Terzigni sia un una forza della natura. Non l’ho mai ascoltato dal vivo.
– Eccoti accontentata – fece il
marito.
La donna buttò indietro la stola
di castoro, fece una panoramica sulle teste davanti a lei e disse:
– Vedrai che saprà iniettare
anche a te un po’ di vitalità.
– Dubito.
Già, il maritone cucciolone non
era tanto portato per la musica classica. Lui ascoltava i Led Zeppelin e i Deep
Purple. Non si era nemmeno aggiornato nel campo del rock. Laura, musicofila e
dilettante flautista, era riuscita a portarlo ai concerti di tanto in tanto.
Una volta si era addormentato e le aveva fatto fare una brutta figura, ma stava
diventando un accompagnatore nel complesso decoroso. Chissà, forse sarebbe
riuscita ad aprire una breccia in quella sensibilità da cane sanbernardo.
– Oh, mia cara!
Laura si girò di scatto. La donna
che l’aveva chiamata stava ancora in piedi, tra le due file di poltrone.
– Ho riconosciuto il tuo
castorino.
Lei glielo aveva prestato, una
sera in cui Enrica doveva andare a una festa di beneficenza.
– Sola?
– Ma quando mai! – fece la donna,
sedendosi con movenze di eleganza affettata. – Questa sera mi accompagna
Giorgio. Si è fermato a parlare con la moglie del sindaco.
Laura non poté fare a meno di
pensare che Giorgio, nonostante lo conoscesse appena, fosse un donnaiolo, degno
compare di quella irriducibile single, un po’ puttana.
– Dicono che il pezzo forte è l’opera
di Alodisio – fece notare Enrica, estraendo dalla borsetta il programma.
Laura tornò a girarsi e le
sorrise. Quella sua amica era una civetta inguaribile, ma si intendeva di
musica. Non veniva ai concerti solo per sfoggiare un bel vestito e l’uomo di
turno.
Ma ecco Giorgio.
– Permesso… scusi… permesso.
Fece alzare quasi tutte le
persone sedute nella fila e andò ad accomodarsi accanto alla sua compagna.
Laura lo squadrò. Era molto più
anziano di Enrica, piuttosto rugoso, con un bel ciuffo di capelli grigi.
Assomigliava vagamente a Robert Redford.
– Ti presento Giorgio – disse
Enrica solo dopo un bel momento.
Lei gli dedicò un sorriso di
circostanza. – E questo è mio marito. – Questi si riscosse da una specie di
torpore e si voltò per salutare a sua volta la coppia.
Oltre ai soliti appassionati, in
quel concerto di apertura della stagione c’era la migliore società.
Laura sapeva che tutti
aspettavano di ascoltare, per la prima volta, la Marcia Funebre di
Pier Germano Alodisio, autore poco conosciuto. Lo aveva riscoperto il grande
critico Nicola Porretta. Una breve vita consumata nell’ombra, quasi
esclusivamente trascorsa nell’isola di Lipari. Il depliant presentava la sua
opera come una partitura assai originale, lontana da ogni stile novecentesco.
Un pezzo di quindici minuti, per pianoforte e orchestra, una specie di rapsodia
che terminava con un tema di “ solenne e trionfale tristezza”, quello che dava
appunto il titolo al brano.
Il vocìo della sala adesso si
stava intensificando. Già si udivano gli sporadici suoni degli archi che
verificavano l’accordatura.
– Quello che odio dei concerti è
l’attesa. – sbuffò il marito di Laura.
– Qui almeno si sta tranquilli e
composti, tra bella gente, chiacchierando piacevolmente. – disse lei. – Non oso
pensare al frastuono e al casino di un concerto rock.
– Ben detto, cara! – fece l’amica
seduta nella fila di dietro. Si era sporta in avanti e alitava sulla nuca di
Laura.
Entrò il direttore d’orchestra. I
musicisti si alzarono in piedi. Il pubblico applaudì.
Klaus Hoppinskj non aveva l’aspetto
classico dei suoi colleghi. Lo smoking che indossava cadeva male sulla sua
figura tarchiata. La testa rasata.
Il marito di Laura commentò:
– Sembra un salumiere.
– L’aspetto non a il monaco. –
disse Laura. – Hoppinskj è comunque un artista molto apprezzato, secondo a
nessuno.
– Sarà… – borbottò l’uomo,
liberando uno sbadiglio da ippopotamo.
Attaccarono la Serenata per archi
di Dvorak. Tutti vennero rapiti da quelle armonie e alla fine Laura fu tra i
primi a battere le mani.
– Bellissima esecuzione! – gridò
al colmo dell’entusiasmo.
– Questa musica è deliziosa. –
fece eco Enrica, alle sue spalle.
– Il maestro Hoppinskj è all’altezza
della sua fama, – commentò Giorgio.
Laura diede una gomitata al
marito. – E tu, che ne pensi?
Non rispose. Solo dopo un momento
chiese: – Hai notato quella strana, sottilissima nebbiolina che avvolgeva gli
orchestrali, durante l’ultimo movimento?
– No. – rispose Laura.
– Eppure…
– Non dire scemenze.
– Non vorrei che ci fosse stata
qualche combustione, che so, un filo bruciato sotto le sedie dei musicisti, in
qualche angolo del golfo mistico. Sai, nei teatri può capitare.
Laura lo fulminò con un’occhiata.
– Ma che sta a dire?
Già, il suo maritone cucciolone,
invece di ascoltare la musica, verificava l’atmosfera circostante, inseguiva
nebbioline inesistenti. – Sai che ti dico? Era lo spirito di Anton Dvorak, che
aleggiava sugli orchestrali per ispirarli. E tu, invece di cogliere il suo
effetto, vai in cerca del suo ectoplasma.
Entrò il pianista Goffredo Terzigni.
Sì, questo era il prototipo del virtuoso della tastiera. Allampanato, con un
mento affilato e una chioma folta, divisa nel mezzo. Doveva avere due mani
lunghissime, come quelle dell’ombra di Nosferatu. Fece un inchino e poi si
sedette sullo sgabello.
Applausi.
Seguì un prolungato silenzio.
Nella sala non si sentiva volare una mosca.
Il direttore, rigido e immobile,
volgeva le spalle al pubblico. Quindi batté tre volte con la bacchetta sul
leggio.
– Hai visto? – sussultò il marito
di Laura.
– Ssss… – fece lei. – Visto cosa?
– Non è possibile. Eppure…
La musica stava per cominciare e
lui aveva le visioni. Laura gli lanciò uno sguardo contrariato.
– Il pianista – disse lui – ha
alzato il medio verso di noi, verso il pubblico.
– Silenzio! – disse qualcuno al
lato dell’uomo. Un’altra donna si girò e lo fulminò con un’occhiataccia.
Accordi di pianoforte, lenti e
dissonanti. Poi un primo contrappunto degli archi e dei legni.
Una strana melodia si diffuse nel
teatro.
Laura si sentiva catturata da
quella musica che sapeva di antico, pur basata su armonie e ritmi di carattere
decisamente moderni.
Dopo un paio di minuti si accorse
che il marito era inquieto.
– Si può sapere che hai?
– Mi sembra di avere le
traveggole.
– Quelle ce le hai sempre, tranne
quando mi accompagni ai concerti. Mi sembra strano che non ti sia ancora
addormentato.
Capitava spesso. Una volta aveva
messo Laura in forte imbarazzo perché lui aveva quasi iniziato a russare. In
quella occasione stavano eseguendo la terza sinfonia di Gustav Malher.
– Quei due che suonano il fagotto,
non li hai visti?
– Ce li ho davanti. Perché?
– Silenzio! – venne dalla fila
anteriore.
– Scusi, mio marito non si sente
tanto bene. – si giustificò lei.
– Hanno alzato il loro strumento,
– sussurrò il marito, – come se volessero scagliarlo in platea.
Laura scosse il capo.
Poi cominciò a vedere qualcosa
anche lei.
La musica, in quel momento, era
affidata al pianoforte. Arabescava inseguendo un tema che non riusciva a
sfociare.
Il secondo violino si era alzato
in piedi.
Girò la schiena verso il
pubblico, si slacciò i pantaloni e mostrò due bianche natiche flaccide.
Adesso un brusio si levò nella
sala.
– Cazzo, lo vedi o no? – disse il
marito, a voce alta.
Era incredibile. E ancora di più lo era il fatto che l’orchestra
continuava nella sua esecuzione, sotto la guida di un direttore particolarmente
ispirato.
– Forse c’entra con la partitura.
– disse Giorgio, il compagno di Enrica. – Delle volte queste opere moderne…
– Permesso… permesso. – fece una
donna in decolté, a fianco di Laura.
Dovettero alzarsi per lasciarla
passare.
– Questo non è un concerto, è un’indecenza!
– diceva la signora, facendosi strada per andarsene.
Fu allora che i musicisti
attaccarono il tema finale della marcia funebre.
Una sottile nebbia grigia li
avvolse, ma non impedì che le loro figure risaltassero sotto le luci di scena.
Goffredo Terzigni pestava sulla
tastiera, producendo suoni che un comune pianoforte non poteva produrre. Ogni
tanto voltava lo sguardo verso il pubblico, mostrando zanne affilate, grondanti
sangue. Un suonatore di oboe aveva scagliato in aria il suo strumento e ora
stava azzannando un avambraccio nudo, tagliato appena sopra il gomito, che
aveva materializzato da chissà dove. I violinisti producevano strani bagliori
con i loro archetti. Due suonatori di clarinetto lanciavano grida orrende
durante le pause. Il timpanista si percuoteva la sua stessa testa, facendo uscire
sangue dalle orecchie. Il primo violoncellista cominciò ad prendere a calci il
collega seduto al suo fianco.
La sala rumoreggiava più che mai,
ma non riusciva a coprire il crescendo della musica.
Molti si alzarono e cercarono di
guadagnare l’uscita. Altri imprecarono. Qualcuno chiedeva aiuto.
Laura continuava a stare seduta,
insensibile all’invito del marito che le stava dicendo di andarsene. Era come
ipnotizzata. Non credeva a quello che sentiva e vedeva.
Poi vennero gli accordi finali.
Una disarmonia addirittura sublime, un contrasto tra pianoforte e orchestra
come Laura non aveva mai sentito.
Il direttore Kaus Hoppinskj si
girò verso il pubblico, fece un inchino teatrale, spezzò la bacchetta e si
lanciò su un ascoltatore della prima fila, azzannandolo alla carotide.
Laura a questo punto pensò di
essere scivolata fuori dalla realtà.
– Vieni! – gridò il marito, afferrandola
per un braccio. – Cerchiamo di uscire.
Ma quella sembrava un’impresa
davvero difficile. Nel fuggifuggi qualcuno si era messo a gridare che le porte
erano sbarrate.
Laura vide cadere Enrica e
Giorgio lungo il corridoio fra le due file di poltrone, e venire calpestati. La
calca era opprimente: grida, lamenti e rumori da tutte le parti.
Mentre cercava di farsi largo con
il suo uomo, Laura notò che le sedie degli orchestrali erano quasi tutte vuote.
I loro occupanti avevano seguito il direttore e si erano sparpagliati tra la
folla urlante degli ascoltatori.
Un uomo gli finì addosso e le
fece perdere la presa alla mano di suo marito, che finì inghiottito dalla
folla. Sbatté contro altra gente, poi finì addosso a un uomo in smoking che
cercò di afferrarla. Laura ebbe l’impressione si trattasse del contrabbassista,
ma quando lo guardò si trovò davanti una faccia deformata dalla rabbia, gli
occhi iniettati di sangue, la bocca spalancata, irta di denti acuminati, da cui
colava bava verde.
Un botto assordante, fiamme e
tanto fumo.
Poi più nulla.
* * *
L’incendio del Teatro Vaudetti è
stata una catastrofe.
Duecentosette morti: bruciati
vivi, asfissiati, calpestati. Ma se ne sono trovati alcuni anche orribilmente
mutilati. La testa del sindaco, appena riconoscibile a cause delle bruciature,
è stata rinvenuta molto lontano dal resto del corpo. Il cranio appariva rosicchiato,
come se un animale l’avesse addentata.
Quello che è accaduto rimane
avvolto nel mistero. Un incendio e un’esplosione sono stati le cause probabili
della tragica distruzione. Ma non si hanno ancora dati certi.
Ci sono le testimonianze dei
pochi sopravvissuti, esclusivamente appartenenti al pubblico e al personale del
teatro, alcuni dei quali sono rimasti invalidi. Ma nessuno osa credere a quello
che hanno riferito.
Lo psicologo Kevin Samasota,
esperto in traumi, sostiene che la spaventosità dell’incendio abbia sconvolto
in modo irreparabile le menti dei disgraziati scampati alla furia del fuoco.
Rimane una curiosità.
Tutto era cominciato durante l’esecuzione
della Marcia Funebre per pianoforte e orchestra di Pier Germano Alodisio: una
strana opera, mai eseguita fino a quel momento, prodotta da uno dei compositori
più appartati del nostro panorama musicale.