di Ottantino
Di Irene amavo gli occhi, la nuca, il coraggio e un certo modo di puntare la lingua contro gli
incisivi inferiori nel pronunciare le parole che cominciano per esse impura. Scoglio. Specchio.
Stronzo. Quando diceva quelle cose lì, la adoravo.
– Te adoro, – mi disse lei, la seconda volta in cui ci vedevamo. Tra di noi parlavamo italiano, ma
per le stronzate e le frasi romantiche usavamo il portoghese. Era una specie di codice che mi è
rimasto appiccicato addosso per parecchio, ad avvelenarmi le conversazioni, anche quando lei non
c'era più già da un pezzo.
Del resto, c'eravamo conosciuti a un corso di lingua. Capii che era romana perché a lezione
diceva "sory" con una erre sola. Ci scambiammo gli appunti e cenammo in una bettola di Bairro
Alto. Le stradine piene di gente facevano su e giù, e ad ogni angolo c'erano un locale aperto e panni
stesi, come a Trastevere.
Era quel periodo in cui si esce insieme ma non si sta insieme. Ci incontravamo la sera,
fumavamo, e bevevamo ginjinha, un liquore alla ciliegia che non mi è mai piaciuto, raccontandoci
le novità e le nostalgie.
Sembravamo emigranti del periodo tra le due guerre, invece ero solo in Erasmus. Studiavo
geometria analitica e sapevo tutto delle coniche.
– Perché si chiama Erasmus? – chiedeva lei.
Io le parlavo di Erasmo da Rotterdam, per lo più inventando, e intanto le passavo tre dita dietro
la nuca. Lei mi spiegava di esser lì in una sorta di introduzione al Brasile: quattro mesi di lavoro a
Lisbona a imparare la lingua, prima di partire per Rio a trovare uno zio e, sperava, fortuna.
Camminavamo a caso per i colli della città, fermandoci a guardare il panorama ad ogni
miradouro. Io guardavo un po' il Tago e un po' lei, che indossava maglie cortissime, sopra un
ombelico di quelli col ciccetto all'infuori.
Era il periodo in cui si sta insieme senza dirselo. Lei elencava le parole nuove che aveva
imparato e io le contavo. E intanto pensavo che partire da Roma per andare a Lisbona a innamorarsi
di una ragazza di Roma è una carambola che ti riesce una volta ogni mille vite. È normale che uno
poi ci legga dentro cose strane: un segnale, il destino, le congiunzioni astrali.
– É o fado, – diceva lei, e intanto tirava su col naso, perché era sempre mezza nuda ed era ovvio
si sarebbe beccata un raffreddore.
incisivi inferiori nel pronunciare le parole che cominciano per esse impura. Scoglio. Specchio.
Stronzo. Quando diceva quelle cose lì, la adoravo.
– Te adoro, – mi disse lei, la seconda volta in cui ci vedevamo. Tra di noi parlavamo italiano, ma
per le stronzate e le frasi romantiche usavamo il portoghese. Era una specie di codice che mi è
rimasto appiccicato addosso per parecchio, ad avvelenarmi le conversazioni, anche quando lei non
c'era più già da un pezzo.
Del resto, c'eravamo conosciuti a un corso di lingua. Capii che era romana perché a lezione
diceva "sory" con una erre sola. Ci scambiammo gli appunti e cenammo in una bettola di Bairro
Alto. Le stradine piene di gente facevano su e giù, e ad ogni angolo c'erano un locale aperto e panni
stesi, come a Trastevere.
Era quel periodo in cui si esce insieme ma non si sta insieme. Ci incontravamo la sera,
fumavamo, e bevevamo ginjinha, un liquore alla ciliegia che non mi è mai piaciuto, raccontandoci
le novità e le nostalgie.
Sembravamo emigranti del periodo tra le due guerre, invece ero solo in Erasmus. Studiavo
geometria analitica e sapevo tutto delle coniche.
– Perché si chiama Erasmus? – chiedeva lei.
Io le parlavo di Erasmo da Rotterdam, per lo più inventando, e intanto le passavo tre dita dietro
la nuca. Lei mi spiegava di esser lì in una sorta di introduzione al Brasile: quattro mesi di lavoro a
Lisbona a imparare la lingua, prima di partire per Rio a trovare uno zio e, sperava, fortuna.
Camminavamo a caso per i colli della città, fermandoci a guardare il panorama ad ogni
miradouro. Io guardavo un po' il Tago e un po' lei, che indossava maglie cortissime, sopra un
ombelico di quelli col ciccetto all'infuori.
Era il periodo in cui si sta insieme senza dirselo. Lei elencava le parole nuove che aveva
imparato e io le contavo. E intanto pensavo che partire da Roma per andare a Lisbona a innamorarsi
di una ragazza di Roma è una carambola che ti riesce una volta ogni mille vite. È normale che uno
poi ci legga dentro cose strane: un segnale, il destino, le congiunzioni astrali.
– É o fado, – diceva lei, e intanto tirava su col naso, perché era sempre mezza nuda ed era ovvio
si sarebbe beccata un raffreddore.
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