La vita va avanti. Sì. Ma come? Il protagonista
Armando Pittella aspirante scrittore, castano, occhi tristi, capelli
corti, forse ha un cane. È solo e disorientato. Cosa gli è
successo? Dove si trova? Cerca delle voci come ricordi. Il muro
davanti ha uno spiraglio. L’umidità è una mano che lo riporta
laggiù da dove tutto è cominciato. Alla sua vita. Sì perché
Armando è morto. Si risveglia in una sorta di vita non vita nel
cimitero dove è sepolto. È una strana sensazione che il lettore
percepisce come una condizione a cui appellarsi quando il dolore per
la perdita dei nostri cari è struggente. La nostalgia è una
costruzione insolita, passa per il protagonista che fluttua
con la vita sotto i piedi. Oppure era dietro le spalle? O in mezzo a
qualcosa che non riusciamo a definire subito?
La luce tremolante del televisore del custode del
cimitero rende la sensazione del trapasso e di una condizione
vacillante. Come la stessa vita o la stessa morte che qui è
presentata come l’ultima appendice di una vita. Armando non è
solo. Ad abitare il cimitero altri che come lui si sono svegliati
nel giardino. Non possono uscire da quelle quattro mura, aspettano un
parente, aspettano di vedere voci e volti noti per poter ricordare
ancora un pezzetto di vita che sembra svanire attimo dopo attimo. Ma
chi erano? Cosa rappresentano per il lettore e per Armando?
“La vita è una tale distrazione che non si
lascia neanche prender coscienza di ciò da cui ti distrae.” (F.
Kafka)
Filippo è morto giovane.
Alessio morto affogato, è uscito dalla tomba ma non riesce a
parlare. È il pensiero muto. Armando non ricorda niente. L’anima
diventa una propaggine inquieta. È una trasposizione. La compagnia
tra i morti non è salvezza, ma sofferenza. Non mangiano, non
dormono, non sognano. I personaggi sono i diversi alter ego di
Armando. Saverio soffre, non esce dalla tomba. La sofferenza che
Armando chiude e trattiene in se stesso. Le mancanze un elenco
inutile a rileggerlo che prende senso dopo la vita, quella a colori.
Chiara la donna di Armando. L’attesa. La felicità
è un “ricordo” dolce, pensa Armando.
“Non sanno quando
sarà come sarà dove andranno, solo questo li accomuna ai vivi,
ancora”.
La loro condizione non sarà per sempre.
Svaniranno prima o poi e si dilegueranno solo dopo cosa? Ecco che qui
il libro sa trasportare fino in fondo alla morte. O alla vita dove il
destino è una riga immaginaria. Separa le sponde di un fiume fatto
di altre storie di terra.
Ma non tutti hanno accettato di essere morti. Il
senso claustrofobico della bara è la prigione dei sentimenti o
rammarichi più intimi. Ma la morte come ce la presenta Vito Ferro
è una morte che assomiglia a un’appendice. La morte come una
vetrina allo specchio.
“Ho pena delle stelle che brillano da tanto
tempo, da tanto tempo...Non ci sarà dunque, per le cose che sono,
non la morte, bensì un’altra specie di fine, o una grande ragione:
qualcosa così, come un perdono?”( F. Pessoa)
I personaggi si rivolgono
agli altri come se fossero ancora in strada, al bar a discutere di
politica. È una condizione che sposta l’equilibrio tra quello che
possiamo credere e quello che crediamo davvero. Il cuore è sempre il
senso delle cose. La morte accarezza tutti, non si impietosisce di
lustri e onori.
“Niente resta.
Quanto si può resistere?”.
È una morte vista da tutti i punti di vista. È
la morte di chi rimane appeso, di chi rimane a passeggiare tra le
tombe, è la morte di chi non ha più nulla da perdere. È la morte
di chi aspetta la morte. È un libro che fa da ponte. Una sorta di
lucernario dove le cose non sono nitide come le ricordavamo ma
prendono un’altra forma. Una forma instabile ma importante. Il
silenzio è una figura densa. Al contrario della
nebbia, ma Vito Ferro ci sa regalare un finale con il sole.
“Lascia perdere Armando per quieto vivere”.
Samantha Terrasi